venerdì 26 febbraio 2021

Intervista a Peppo Castelvecchio

Giusto da trent’anni alla guida della cooperativa Il Pellicano, una vita in prima linea con gli ultimi e gli emarginati e in cerca di “un’utopia possibile”, Peppo Castelvecchio ha risposto ai nostri interrogativi rispetto alla solidarietà, al volontariato e alla vita delle api.

La parola solidarietà sembra essere scomparsa dal dibattito sociale e politico. Ormai è quasi una parola che pare dia fastidio.


Sì, è verissimo, perché quando si affronta il tema della solidarietà, la maggior parte della gente usa come difesa la domanda: “Perché dovrei occuparmi degli altri, quando io stesso ho difficoltà a tirare avanti?”. Quindi, questo diventa subito un ostacolo non facile da superare, perché la solidarietà è vista solo come qualcosa da dare in più, quando non si ha più bisogno di niente. Ovvero: a livello di mentalità comune, siamo solidali perché stiamo bene, ma stiamo bene perché non ci manca niente, e allora il discorso della solidarietà si avvicina molto alla brutta versione della carità, non nel senso originario della parola, ma piuttosto come elemosina. Diamo qualcosa in più per sentirci a posto: questo è un po’ tipico di chi ha avuto una formazione cristiana, cattolica e che ha imparato praticamente fin da bambino, con i “fioretti”, che bisogna farsi carico dei bisogni degli altri. 


Cosa è cambiato?


Nel tempo, soprattutto nel contesto di questa società con l’individualismo che è ormai arrivato a livelli estremi, il bisogno di difendersi è diventato proprio un modo di porsi, perché sembra che tutti siano lì pronti a fregarti, e quindi bisogna essere guardinghi, e stare attenti. Ecco che prima di arrivare alla solidarietà c’è un ulteriore ostacolo, una barriera nella domanda: “Perché dovrei aprirmi? E questi qui perché meritano di essere aiutati?”. Non parliamo poi di quelli che arrivano da lontano, perché “potrebbero stare a casa loro”, e sono tutte giustificazioni per tenersi chiusi in se stessi, nel proprio recinto, barricandosi, e non fidandosi del prossiom. E questo è già un ennesimo ostacolo molto, molto forte. L’altro aspetto nel quale mi capita di imbattermi con una certa frequenza è non credere e non essere convinti che ci siano delle persone veramente solidali. Questo l’ho vissuto di persona più di una volta, quando mi hanno chiesto: “Ma è proprio vero che tu non ci guadagni niente?”, e poi ci sono casi in cui qualcuno se ne è approfittato, ed ecco che nasce un’altra giustificazione per non muoversi e per non far niente. Su questo posso dire che negli anni mi sono corazzato perché non mi interessa cosa possono dire o pensare gli altri, anche qui in comunità, dove a volte pensano addirittura che io sia il padrone quando non sono assolutamente il padrone di niente, se non di casa mia. C’è sempre un po’ questo dubbio che Il Pellicano sia di mia proprietà, ma quando dico che è una cooperativa sociale che non ha nessun padrone, in tanti non ci credono. Ma questo mi rende molto di libero: faccio, offro quello che posso offrire e spero che chi verrà dopo di me porti avanti gli stessi ideali, gli stessi valori. È il motivo per cui l’entrata della comunità non ha un cancello, né una sbarra, perché ho sempre considerato la comunità un luogo dove si può venire liberamente, ed è libero di restarci. 


Salvo le regole necessarie alla vita in comune, giusto?


Sì, senza dubbio. Le regole, e il rispetto per la persona che è la base sulla quale muoversi, altrimenti diventa il luogo della prepotenza. Per me è molto importante che tutto sia vissuto alla luce perché chi si occupa di solidarietà non ha niente da difendere o da nascondere. E la trasparenza nel vivere la solidarietà è fondamentale non essendoci niente da difendere, se non il bene comune a cui tutti possano attingere. Lo sforzo resta quello di accogliere chi ha bisogno senza fare distinzioni né economiche, né di razza, né di cultura, anche se non sempre è facile. Viverci dentro negli anni mi ha spinto a confrontarmi alla ricerca di forze ed energie che spesso non riesco a trovare all’interno della struttura perché la stragrande della maggioranza delle persone arrivano in cerca di risposta ai loro bisogni, mentre il mio ideale è sempre stato una comunità di vita, come scelta libera di condividere, dove ognuno mette a disposizione quello che è, ancora prima di quello che ha.


Sembra di capire che una delle componenti fondamentali su sui si regge la solidarietà, è proprio la condivisione.


Sì, come dicevamo, se uno è ricco può fare e dare. È un modo per acquietare la coscienza, ma trovare un posto per chi non è di nessuno, è la vera sfida. Ci sono situazioni in cui, se è possibile coinvolgere le istituzioni, è doveroso farlo, ma penso sempre che bisogna provare a farsene carico, indipendentemente dalla persona, e dalle sue condizioni.


Arrivare alle istituzioni, vuol dire essere parte di una rete.


Certo, e non è facile, anche se con gli uffici competenti ormai abbiamo una certa consuetudine e cerchiamo di fare il possibile anche a fronte di una richiesta continua. La prima cosa che penso, comunque, è sempre se posso fare qualcosa. Un minimo di rapporto ci vuole, e abbiamo dovuto lavorare parecchio su di questo, anche perché ci sono dei limiti oggettivi di spazi e di risorse. Non possiamo salvare il mondo intero.


Come si può fare la differenza, agendo in un contesto così articolato?


Ritengo fondamentale la presenza di amici, per non chiudersi, per essere sempre aperti al confronto, e per essere presenti sul territorio, perché la solidarietà non è solo personale, ma è legata a un ambiente, a una rete, al sistema sociale in generale.


C’è una scuola di pensiero che sostiene come volontariato vada fatto in silenzio, ma chi ha maturato una certa esperienza nel volontariato sa che si fa anche alzando la mano, quando è necessario. È così?


Certo, se no diventa carità, elemosina, che però non risolve il problema, perché mantiene la persona al livello dei suoi bisogni, mentre è necessario farla crescere, aprire delle possibilità, perché in prospettiva abbia l’occasione di diventare veramente se stesso.


Che attenzioni richiede la presenza continua dei volontari?


Non ho mai usato la parola “miei” volontari perché al di là del personale che è assunto, ho la fortuna di avere dei volontari che si affiancano al personale alla stessa stregua in un rapporto né di dipendenza né di superiorità. È molto importante che i volontari prendano coscienza della realtà in cui operano. C’è posto per tutti, ma la persona che si offre come volontario deve capire cosa può fare e dove può sentirsi a suo agio, ma nello stesso tempo bisogna indicargli quali sono i bisogni e le necessità della struttura in cui opera. Così da definire il tempo, gli spazi e le azioni che il volontario può mettere a disposizione.


C’è sempre l’eventualità di aspettative fuori luogo, da una parte come dall’altra?


Sì, per forza, e bisogna stare attenti, perché non è facile ed è necessario saper trovare i modi per dare il meglio, senza l’aspettativa di un ritorno, non tanto economico, ma emotivo. È capitato anche a me. Ho imparato anche a difendermi da me stesso, lavorando sul fatto che non mi devo identificare. Non devi proiettare te stesso. È un equilibrio da tener presente e su cui intervenire e bisogna fare molta attenzione, nel volontariato, ad andare a compensare qualcosa che manca sul piano affettivo o emotivo, altrimenti è un disastro.


In tutto questo cosa c’entrano le api?


Le api nascono dall’esperienza degli orti del Pellicano che non sarebbe possibile senza l’apporto dei volontari che se ne occupano. Poi le api sono quelle che ci insegnano e da cui dobbiamo imparare, non poco, perché è la natura che ci indica come essere umani: sono sempre insieme, stanno vicinissime, e lavorano tutte per il bene comune.

giovedì 18 febbraio 2021

Welcome To The Club: Conte's Beer

Il vizzolese sa produrre anche la birra, ma cosa fa scattare la voglia di farsela in casa? Era un giorno d’estate, ero rilassato in spiaggia sotto l’ombrellone, guardavo il mare con l’impercettibile e inconscia voglia di dissetarmi, e nell’immagine delle onde che si infrangevano dolci sull’arenile, è salito il pensiero che se il mare fosse stato di birra mi ci sarei tuffato a bocca aperta. Era un sogno ad occhi aperti, ma da quel momento è scattato qualcosa. Ho preso in mano il tablet, ed ho cominciato a sfogliare la rete alla ricerca di “come si fa la birra”. Ebbene sì, sono entrato in un mondo dove la passione per questa bevanda la fa da regina, dove molti appassionati come me si misurano e si confrontano su stili, metodi, luppoli, aromi, fragranze, tecniche, insomma tutto quello che può esaltare il proprio orgoglio nell’aver ottenuto un prodotto che ti fa dire “questo l’ho fatto io”. Incomincia allora il percorso che dura circa un paio d’anni, dove leggi articoli, ti iscrivi ai blog, visiti i siti specializzati nella vendita di attrezzature, ti documenti sulla varietà di stili, studi i luppoli, ed intanto maturi l'idea di provare. Certo, che tra il dire ed il fare il fattore tempo è predominante, e ce n’è sempre poco. Ma un bel giorno ti torna a casa tuo figlio con il kit di homebrewing acquistato in giro per centri commerciali. Ok, si parte! Il kit contiene tutto il necessario, fermentatore, malto luppolato, lievito, sanificante, tappatrice, densimentro, aggeggi vari. Ero già pronto, mi ero fatto un bagaglio di informazioni sulle tecniche, che riassumendo in breve sono tre: 1) da estratti di malto già luppolati; 2) da estratti di malto più grani (malti speciali da ammostare); 3) All Grain, ovvero partendo dal malto in grani da ammostare. Scelgo ovviamente di partire dal primo gradino, cioè dai malti già luppolati. A mio favore gioca sicuramente il mio diploma di perito chimico industriale, quindi conosco le situazioni che entrano in gioco nel processo produttivo, tipo temperature, densità, volumi, rapporti di diluizione. Preparo il tutto, porto a volume l’estratto di malto luppolato che si presenta sotto forma di melassa densa ed appiccicosa (molto zuccherina) nel fermentatore, aspetto che la temperatura si stabilizzi e che sia compatibile con il range di esercizio del lievito (18°c/24 °c). Aggiungo il lievito, rimescolo in modo energico, chiudo il tappo e metto la valvola (gorgogliatore) perché la fermentazione deve avvenire in ambiente anaerobico. Incrocio le dita, ed inizia l’attesa...



Passa un giorno ed inizia la fermentazione con il suono del gorgogliatore che si diffonde per casa, l’emozione è tanta nel vedere che il processo naturale del lievito sta iniziando la trasformazione delle sostanze zuccherine contenute nel mosto di malto in alcool. I giorni passano, il gorgogliatore rilascia un suono amico, finché dopo circa dieci giorni si tace. Bene ci siamo, procedo alla misura della densità finale che sottratta a quella iniziale moltiplicata per un fattore costante che mi dice la gradazione alcolica ottenuta dopo la conversione degli zuccheri. Grandioso, ho ottenuto una gradazione di 5.4°, che rientra nel target dichiarato nel kit, procedo dunque a un travaso in modo da separare il lievito esausto depositato sul fondo del fermentatore e poter chiarificare la birra. Dopo due giorni dal travaso, procedo con l’imbottigliamento. In questa fase è prevista l’aggiunta di un quantitativo di zuccheri in proporzione al volume, che consente, grazie ai minimi residui di lievito in sospensione, di far partire il processo di rifermentazione in bottiglia detto anche carbonazione (priming), che svilupperà in modo naturale la CO2 con la conseguente produzione di schiuma durante la mescita. 



Dopo l’imbottigliamento la birra  va lasciata maturare almeno due mesi, e posso affermare che sono stati lunghissimi, tanta era la voglia di assaggiare il risultato di questa magnifica ed emozionante avventura. Ebbene, non credo per bravura, ma sicuramente con la giusta dose di fortuna oltre al tempo speso nello studiare le tecniche e la mia base di conoscenze scolastiche, il risultato è stato soddisfacente, quindi una buona base per dire “ok, si può fare!”. Da allora sono passati circa 3 anni e non ho più smesso di produrre la mia birra, affinata su stili inglesi, a partire dai malti, selezionando i luppoli, coccolando i lieviti. Gli stili che produco sono: English Ale, una birra ambrata con il giusto amaro, e valori fruttati rilasciati dai luppoli; Bitter, simile alla precedente per i malti utilizzati ma con l'utilizzo di luppoli che la rendono più amara; Porter, birra scura dal sapore tostato con retrogusto di liquirizia ed il giusto amaro. Non sono stati sempre momenti di gioia, perché l'errore è sempre dietro l'angolo, in particolare è estremamente importante mantenere i livelli di sanitizzazione elevati durante il processo altrimenti si butta tutto, ed è capitato in più di una circostanza, ma gli errori, se si riconoscono, servono a migliorare. Buona birra a tutti.

giovedì 11 febbraio 2021

Adotta un'arnia

Da anni ormai è nota la difficoltà di sopravvivenza delle api, dovuta all’uso intensivo dei pesticidi nelle monocolture e all’inquinamento in generale. Il ruolo fondamentale dell’impollinazione nell’equilibrio naturale è a rischio ed è per questo che nella realtà degli orti del Pellicano, attiva dal 2015, le api hanno via via assunto un ruolo sempre più centrale. Oltre alla produzione di miele, gli orti del Pellicano propongono corsi di introduzione all’apicoltura e hanno sviluppato, con il Movimento per la lotta contro la fame nel mondo di Lodi e l’Università di Veterinaria, ImpollinAzione Urbana, un progetto per contribuire alla salvaguardia degli insetti impollinatori e al monitoraggio dell’inquinamento atmosferico. Le api hanno bisogno di compagnia e questa è l’occasione a cui Vizzolo al futuro ha aderito e che condivide con entusiasmo. Con 25 euro (annuali) si ha diritto alla tessera Adotta un arnia 2021/2022, al libro L’utopia possibile di Peppo Castelvecchio,  a tutti gli aggiornamenti legati all’attività degli orti del Pellicano, all’accesso gratuito ai corsi, alla visita guidata all’apiario, a 1 vaso di miele 500 g (da settembre) e, solo per le prime cinquanta adesioni, a una candela con cera naturale 100%. L’offerta è valida tutto l’anno fino a esaurimento dei posti disponibili, limitati a 200 iscrizioni e al territorio della provincia di Lodi e Milano. È sufficiente comunicare via mail o telefono (gliortidelpellicano@gmail.com o 0371934343) nome e cognome e un recapito di posta elettronica o telefonico. Il contributo tramite bonifico: IBAN: IT 71 D 03599 01899 087948501131 (causale: Adotta un’arnia). L'iniziativa è inserita nel contesto di un'idea concreta di economia circolare e di prossimità che è descritta nel dettaglio, insieme a tutte le attività degli orti del Pellicano, su Adotta un'arnia.

lunedì 8 febbraio 2021

Vizzolibri: Fabio Stucchi

Fabio Stucchi, imprenditore e libero pensatore notturno, sceglie per Vizzolibri, “La strada” di Cormac McCarthy (Einaudi): nell’odissea infinita di un padre e di suo figlio nelle vie senza nome di un’apocalisse prossima ventura, la sopravvivenza in un mondo schiantato, annerito e perduto senza speranza dipende dal rinnovo quotidiano dell’amore filiale. È così che prende forma un capolavoro della letteratura attuale, grazie a una scrittura asciutta, essenziale e tagliente che, pagina dopo pagina, assume il tono di una profezia.

venerdì 5 febbraio 2021

Una "dolce" iniziativa...


Siamo molto felici di annunciare che Vizzolo al futuro sarà il primo firmatario di un importante progetto di economia circolare e di prossimità che ha nella tutela dell’apicoltura il suo baricentro. Abbiamo aderito da subito perché ci è piaciuta la concretezza della proposta che va nella direzione del rispetto ambientale, della sostenibilità e della biodiversità. Lo condivideremo venerdì prossimo, 12 febbraio: abbiate pazienza, per le cose belle ci vuole sempre un po’ di tempo.